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IL SISTEMA SANITARIO REGIONALE LOMBARDO ALLA PROVA DEL COVID-19 (parte 2)

+++ seconda parte +++ (qui la prima)

Il problema rimane, quindi, sia il finanziamento pubblico della sanità, sia le scelte di allocazione delle risorse che spetta ai singoli SSR. È evidente quindi che l’attuale emergenza chiama in causa il rapporto tra pubblico e privato, a partire dal sottofinanziamento del primo. Che deve essere considerato un dato di fatto, visto che l’attuale Ministro ha tenuto a sottolineare più volte l’incremento delle risorse nella recente legge di bilancio nazionale. Se, infatti, il numero di posti letto negli ultimi anni è diminuito (coerentemente con l’evoluzione epidemiologica in corso) anche il personale da tempo viene considerato sottodimensionato, anche solo per il mancato turnover della PA degli ultimi anni. In questo senso, l’iniziativa (clamorosa) di trasformare la laurea in medicina in un titolo abilitante avrà un impatto notevole nei prossimi mesi. Ma rimane il problema del finanziamento di tutto il settore pubblico: un finanziamento che richiede risorse “ordinarie”, certamente non una tantum o emergenziali.

Ma oltre al tema delle professioni, si deve immaginare che gli stessi obiettivi di salute cambieranno nei prossimi anni: il ritorno delle epidemie, infatti, richiede di sviluppare settori e specialità che si sono dimostrati impreparati. Non solo in tema di virologia e infezioni, ma per esempio nel sistema della prevenzione, soprattutto a livello territoriale.

Ed è qui che ci si devono aspettare i maggiori cambiamenti. Le cure primarie, il ruolo più attivo dei Distretti, i servizi di prevenzione: difficilmente un operatore privato, anche se convenzionato, riuscirebbe a sostenere questo tipo di funzioni. Neanche le terapie intensive, nel numero attuale, sono sostenibili dalla sanità privata per un periodo diverso da quello emergenziale.

Non è semplice dire che cosa succederà, ma è evidente che anche il sistema lombardo dovrà intraprendere un cambiamento di rotta significativo. Infatti, la sanità di territorio, l’integrazione tra sociale e sanitario, le cure primarie costituiscono tutt’ora il tallone d’Achille del sistema regionale, come diremo più avanti. Inoltre, c’è da credere che l’attore pubblico richiamerà a sé molte risorse umane e materiali. E questo non si potrà non tradurre in una minore disponibilità per alcune specialità (divenute meno rilevanti socialmente) che in Lombardia sono svolte soprattutto dalla sanità privata convenzionata.

Qualsiasi sarà l’esito, è bene sottolineare che non è possibile immaginare un ritorno sic et simpliciter al modello pensato nel 1978: per diverse ragioni, ma soprattutto per il fatto che dopo 40 anni anche la società italiana è cambiata. È velleitario pensare a una “nazionalizzazione” della sanità privata, come pure qualcuno immagina. E soprattutto questa ipotesi non tiene conto del fatto che, nonostante le performance del nostro SSN rispetto ad altri paesi occidentali, il sistema prima dell’epidemia non garantiva uguale trattamento sull’intero territorio nazionale, con disuguaglianze in termini di accesso e di esiti di salute che sono inaccettabili[1].

Piuttosto, nella prospettiva di un welfare responsabile, la logica prevalente è quella della collaborazione e non dell’esclusione, dell’et-et e non dell’aut-aut. Che lo Stato mantenga una logica d’azione tendenzialmente burocratica è anche una necessità organizzativa (Bertin, 2012)[2]: attori sociali diversi, privati, profit e non profit, sono parte integrante del sistema sanitario da diversi decenni anche perché portatori di logiche d’azione differenti. Ci sembra di poter quindi suggerire un loro rinnovato coinvolgimento, in un meccanismo di rete, con l’obiettivo di fornire la migliore risposta possibile ai cittadini, nel loro contesto territoriale. In capo all’attore pubblico continua a rimanere la responsabilità politica di garante dei diritti dei cittadini. Quale sia il mix di attori da coinvolgere nei singoli territori e per le diverse esigenze di salute è una opzione che deve essere risolta in una logica di condivisione e non si esclusione dei soggetti sociali, valorizzando il loro ruolo di “corpi intermedi”.

La difficile attuazione della riforma

La sanità lombarda eccelle certamente in alcuni settori della diagnostica e della prevenzione (per esempio il suo piano di screening oncologico è molto importante). Se invece dovessimo analizzare altri aspetti della tutela della salute, la Regione non raggiungerebbe livelli particolarmente soddisfacenti: il territorio e la relazione tra ospedale e territorio, ma anche il sociale e il socio-sanitario integrato sono molto deficitari (cfr. Fondazione GIMBE, 2019[3]; ma anche Gori, 2005; Marzulli, 2015). Si pensi solo al fatto che la programmazione (Piano Socio Sanitario regionale) in materia non è mai stata particolarmente sviluppata e dopo una pausa di dieci anni è stata solo di recente trasformata in un piano quinquennale. Al contrario, l’integrazione delle politiche (e quindi soprattutto quella tra sociale sanitario) rappresenta una risposta adeguata anche ai mutamenti della società nel suo insieme: “Lavorare in un’ottica di integrazione richiede quindi: a) ricomposizione della frammentazione delle risposte ai bisogni, b) attenzione alla persona nella sua globalità, c) concezione del benessere come condizione di salute complessiva dei cittadini, d) capacità di dare risposte unitarie ai bisogni complessi degli utenti” (Cesareo, Pavesi, 2019 :210).

Elementi di conferma della difficile situazione vengono anche dai documenti istituzionali che hanno preceduto la riforma della sanità lombarda (la futura Legge Regionale 15/2015), come il Libro Bianco del 2014 o le «Regole di sistema» del 2014: qui si discute apertamente di “superamento della separazione sociale e sanitario” e di necessario “incremento della spesa sui territori”. Dal giorno della riforma, la Regione si era impegnata in particolare su due fronti: ricucire il legame tra ospedale e territorio (premessa di ogni possibile integrazione tra sociale e sanitario) e, come conseguenza del primo, attivare percorsi di presa in carico globale del paziente cronico. La parola chiave era passare dal “to cure” (curare) al “to care” (prendersi cura). Un imperativo categorico se si intende affrontare politiche sanitarie che siano responsabili, nel senso che noi diamo a questo termine (Cesareo, Pavesi, 2019: 161-167) e soprattutto efficaci.

La Regione si era resa conto del fatto che pur avendo un ottimo sistema sanitario, le sue performance non miglioravano per il fatto di essere eccessivamente sbilanciato sul sanitario e sul residenziale, quindi sostanzialmente sul sistema ospedaliero, in un contesto però di elevata comorbilità (presenza di più patologie per lo stesso paziente), invecchiamento della popolazione e prevalenza di patologie croniche (“In Lombardia nel 2017 il 39 ,7% della popolazione è affetto da almeno una malattia cronica e il 19 ,2% è pluripatologico”, Polis Lombardia, 2019: 133).

Le cronache ci dicono che proprio le persone anziane, con più patologie croniche, che magari vivono in piccoli centri di aree remote, siano le vittime privilegiate del COVID-19.

La riforma del 2015 era imperniata su ridefinizione istituzionale del socio-sanitario nel suo complesso: il territorio è stato suddiviso in 8 ATS (dimezzando le vecchie 15 ASL) e in 27 Aziende Sociosanitarie Territoriali (ASST, le ex Aziende Ospedaliere), a loro volta articolate in Presidi Ospedalieri territoriali (POT) e Presidi sociosanitari territoriali (PRESST). La norma prevede che, sul territorio, le ASST definiscano il coordinamento della rete di erogatori pubblici e privati (RICCA). Tutto questo però, dopo cinque anni, non è stato ancora adeguatamente sviluppato. La riforma sanitaria per questi aspetti è rimasta invischiata in difficoltà di vario genere, anche in resistenze al cambiamento, ma soprattutto nella incapacità di un ridisegno complessivo dei servizi. Riportare alcune funzioni sul territorio o investire sulla prevenzione specifica, rivolta alle categorie sociali più fragili, si è rivelato un compito non semplice.

Il risultato paradossale è il rafforzamento del centralismo regionale, un tema non nuovo in Lombardia (Pesenti, 2005 e 2008): la dimensione incongrue di alcune ATS (quella di Milano dovrebbe occuparsi della salute di 3,4 milioni di cittadini), la creazione di mega ospedali (si pensi all’ASST Santi Carlo e Paolo, con poli collocati a distanze insostenibili), i progetti avveniristici ma prevedibilmente in ritardo (come la città della salute di Sesto San Giovanni), hanno concentrato risorse ed energie del sistema e allontanato l’attenzione dal territorio. Anche il progetto di presa in carico del paziente cronico[4] (che avrebbe potuto rappresentare una vera svolta del sistema) si è rivelata un’occasione forse non perduta ma certamente impantanato ed evidentemente non risolutivo.

Non è un caso che la risposta tra SSR lombardo e veneto sia stata così diversa: in due regioni confinanti e con una guida politica così simile, sono state operate scelte diverse, condizionate dal modello sanitario prevalente. In Veneto le strutture territoriali (i medici di base e i Servizi d’igiene delle ASL) hanno filtrato i pazienti, facendo sì che solo il 20% dei contagiati asintomatici andasse in ospedale ed evitando così quei focolai ospedalieri che hanno generato la crisi del sistema in Lombardia. Qui, all’opposto, si è deciso non solo di privilegiare il ricovero ma è stato commesso anche qualche errore di inesperienza (come il trasferimento dei malati da Codogno agli altri ospedali della regione)[5]. Questa scelta non è una bizzarria, ma espressione di un modello in cui la sanità di territorio, con particolare riferimento alla dimensione distrettuale, è da tempo relegata a un ruolo secondario.

La comunità di cui prendersi cura

Come è stato ricordato da un gruppo di medici impegnato in questi giorni nel focolaio bergamasco[6], questa epidemia non riguarda solo il sistema sanitario, ma il sistema sociale nel suo complesso. Non c’è solo bisogno di infettivologi o virologi: sono le comunità a essere colpite, è tutta la popolazione che necessita di assistenza. I medici, nel loro appello, fanno esplicito riferimento alla necessità del contributo di scienziati sociali e assistenti sociali. E non si può non sottolineare l’importanza di un appello che invoca una alleanza, una integrazione condivisa in termini di Welfare responsabile che, seppur emersa in un contesto di emergenza, induce a sperare in un cambiamento non più rinviabile.

I medici sottolineano come non si tratti di concentrarsi sugli e negli ospedali: chiedono qualcosa che sembra scontato, cioè di rendere flessibile l’assistenza, di aumentare le cure domiciliari, anche con l’ausilio delle tecnologie della comunicazione (telemedicina).

Il loro appello si conclude dicendo che per troppo tempo si è pensato a un sistema sanitario “incentrato sul paziente”: forse è il caso invece ripensare a quella che in sociologia medica è la care in the community, ma soprattutto by the community. Questa ultima espressione ci ricorda non solo che bisogna portare i servizi nella comunità (in the community) ma anche come la comunità possa essere attore, protagonista dei processi di cura (Giarelli, Venneri, 2015; Twelvetrees, 2006). L’attivazione capacitante, una delle opzioni fondamentali del welfare responsabile, è anche questo: capire come le comunità locali siano portatrici di risorse e non solo origine dei problemi. La responsabilizzazione dei soggetti sociali è la strada che può permettere di passare da un modello assistenzialista (che in una fase emergenziale può prevalente), a un modello che attiva le capacità delle comunità.

È abbastanza evidente come questa emergenza abbia mostrato tutti i limiti di un modello, nato alla metà degli anni Novanta, che vedeva il cittadino soprattutto come cliente a cui mettere a disposizione un’ampia offerta sul mercato sanitario. Forse si tratta solo di mettere in atto quanto era stato previsto nella riforma del 2015, anche se rappresenta una rivoluzione copernicana del sistema.

Partire dai bisogni, costruire un processo di programmazione che coinvolga tutti i soggetti sociali interessati, con una governance a rete, è la sola possibilità di mettere in campo tutte le possibili risorse disponibili.

Immagine: foto creata da freepik – it.freepik.com

[1] Oltre ai molti studiosi che se ne sono occupati dal punto di vista sociologico (Cfr. Pavolini e Vicarelli, 2012) le disuguaglianze sono oggetto di specifica analisi per es. dello stesso Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/globale/diseguaglianze

[2] E in questi giorni ce ne stiamo accorgendo, se si pensa alla modificazione continua dei modelli per permettere di uscire di casa.

[3] Tra le altre cose nel rapporto si può leggere come il sistema dell’assistenza distrettuale e ospedaliera lombarda sia appena sufficiente, e molto inferiore a quello per esempio del Veneto (GIMBE, 2019: 92).

[4] DGR X/7655 del 28.12.2017.

[5] Cfr. Coronavirus, il virologo Palù: «La Lombardia non l’ha arginato, in Veneto i casi gestiti meglio sul territorio», Corriere della Sera, 2 aprile 2020: https://www.corriere.it/cronache/20_aprile_01/lombardia-non-ha-arginato-coronavirus-veneto-casi-gestiti-meglio-territorio-fbbfa2da-7448-11ea-b181-d5820c4838fa.shtml

[6] M. Nacoti et al., 2020: https://catalyst.nejm.org/doi/full/10.1056/CAT.20.0080

 

Riferimenti bibliografici

Bertin G. (a cura di), 2012, Welfare regionale in Italia, Ed. Ca’ Foscari, Venezia.

Censis, 2017, Migrare Per Curarsi, Roma,

Cesareo V. (a cura di), 2017, Welfare responsabile, Vita & Pensiero, Milano.

Cesareo V., Pavesi N. (a cura di), Il welfare responsabile alla prova. Una proposta per la società civile, Vita & Pensiero, Milano.

Fondazione GIMBE, 2019, 4° Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, https://www.rapportogimbe.it/4_Rapporto_GIMBE.pdf

Giarelli G., 2019, Il SSN italiano tra paradossi latenti e sostenibilità problematica, in G. Giarelli, V. Giovannetti, Il Servizio Sanitario Nazionale italiano in prospettiva europea. Un’analisi comparata, FrancoAngeli, Milano, pp. 15-60.

Giarelli G., Venneri E., 2015, Sociologia della salute e della medicina. Manuale per le professioni mediche, sanitarie e sociali, FrancoAngeli, Milano.

Gori C., 2005, Politiche sociali di centro destra. La riforma del welfare lombardo, Carocci, Roma.

Marzulli M., 2015, Salute e mutualità nel welfare lombardo, FrancoAngeli, Milano.

Mauri M., Satolli R., Valetto M. R. (a cura di), 2010, La salute in Lombardia. Quarant’anni di storia verso il futuro, FrancoAngeli, Milano.

Nacoti M. et al., 2020, At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation, Journal Article, non issue, in Catalyst, 03, 20, doi: 10.1056/CAT.20.0080, https://catalyst.nejm.org/doi/abs/10.1056/CAT.20.0080

Osservatorio Nazionale sulla salute nelle regioni italiane, 2019, Rapporto Osservasalute 2018. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

Pavolini E., Vicarelli G., 2012, Is decentralization good for your health? Transformations in the Italian NHS. Current Sociology, 60(4), 472–488. https://doi.org/10.1177/0011392112438332

Pesenti L. (2005), Il welfare in transizione, ed. Lavoro

Pesenti, L., Fazzone, U. (2008), Il sistema accreditamento-voucher e la riforma del welfare lombardo, in Vittadini, G., Brugnoli, A. (ed.), La sussidiarietà in Lombardia: i soggetti, le esperienze, le policy, Guerini & Associati, Milano: 79- 96

Polis Lombardia, 2019, Rapporto Lombardia 2019, Guerini e Associati, Milano: https://tinyurl.com/waz4ffw

Regione Lombardia, 2019, DGR XI /2672 del 16/12/2019: Determinazioni   in   ordine   alla   gestione   del   servizio   sanitario   e   sociosanitario   per l’esercizio 2020, cfr: https://tinyurl.com/tavfshs

Toth F., 2014, La sanità in Italia, Il Mulino, Bologna.

Twelvetrees A., 2006, Il lavoro sociale di comunità. Come costruire progetti partecipati, Centro Studi Erickson, Trento.

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